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Mi studio di ripercorrere la mia esistenza
per ravvisarvi un piano,
per individuare una vena di piombo o d’oro,
il fluire di un corso d’acqua sotterraneo…
M. Yourcenar, Memorie di Adriano

 

Quando si comincia ad inseguire un pensiero autobiografico ci si scopre a guardare alla propria esistenza come spettatori.
Nel ripensare a ciò che abbiamo vissuto è come se ricreassimo un altro da noi che vediamo agire: nelle gioie e nel dolore, nei successi e nelle sconfitte, mentre assistiamo allo spettacolo della nostra vita.
Si inizia quasi per caso a ripensare al proprio passato e poi non si finisce più di cercare, di scoprire, di desiderare di andare a fondo e comprendere.
Come pazienti artigiani si va alla ricerca di tracce e indizi per rimettere insieme quei tasselli d’esistenza, spesso rimossi per l’urgenza di dimenticare o perché non si è avuto il tempo di osservarsi vivere.
Il pensiero autobiografico può trasformarsi allora in un progetto narrativo.
Storia di vita, che avrebbe potuto seguire altri percorsi, che avrebbe potuto conoscere esiti diversi, ma che al momento è la nostra particolare storia individuale. La nostra storia, l’unica che abbiamo.
Ed è così che dal pensiero autobiografico, passiamo al lavoro autobiografico.
Un lavoro che non è più solo mentale ma che cerca la sua concretezza nella parola scritta.
Quella scrittura cui ci siamo rivolti nei diari della giovinezza, nelle emozioni delle segrete poesie, o nelle fantasticherie intorno a scenari di mondi possibili, quando ancora la vita era tutta da inventare.
Ora che i giochi sono stati giocati, la scrittura si alimenta di un materiale variegato che alla giovinezza era ancora negato, depositato nella memoria.
Ed è grazie al voler ricordare, che la scrittura autobiografica diventa prendersi cura di sé.
Di quel sé quasi sconosciuto che la memoria rimanda e che accettiamo di prendere in carico.

Anna Giorgini

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