
Era un scricciolo verdino e pieno di bolle sul viso, in una culla dietro a un vetro, cucciolo d’uomo che già aveva rischiato di morire, con una mamma ancora sofferente e un papà grande capo apache.
Oggi è più alto di me.
La sua adolescenza se la gestisce in modo atipico.
La sera va a letto presto, massimo alle dieci.
Non si concede certi lussi culinari, né alcolici, fa un sacco di sacrifici perché è cresciuto affogando il muso in certi piatti di pasta che facevano spavento, a lui piace mangiare, fa sacrifici enormi perciò.
Lui è un atleta.
Lui, poi, è un esteta. Non è che si può uscire in allenamento vestito così, come capita. E no. Fa parte dell’essere un professionista nell’anima questa sua attenzione alle appendici della bicicletta, così accuratamente gestita, composta, coccolata, pulita, conservata.
Quasi come, amandola, anche lei lo amerà e lui farà meno fatica, in gara.
Lui è un ciclista.
Soffre in salita, soffre il caldo, ma quel giorno che è tornato a casa con una coppa gigantesca, più grande di lui, ricordo bene i suoi occhi cosa dicevano: non finisce qui, questo è solo l’inizio.
Tra un po’ inizia il campionato.
La sua famiglia è tentata dal seguirlo in ogni dove, rischiando di caricarlo troppo d’aspettative (perché lui è un atleta, esteta, ciclista … che sa emozionarsi).
O restare a casa, aspettando notizie telefoniche, aspettando poi i suoi racconti puntuali, al ritorno (perché lui è uno che racconta ogni chilometro, ogni cambio di pendenza, ogni curva più stretta, ogni cartello stradale, ogni filo di vento sorpassato).
Io, che posso dirgli io, qui, io che non sono mai stata una sportiva, io che al massimo running therapy lottando con la fatica immane, io che non sopporto la fatica, solo per quel po’ di benessere psicofisico del dopo-fatica.
Che posso dirgli.
Niente.
Gli dedico un pezzo della homepage, a lui e alla sua nuova squadra.
In bocca al lupo, Giammarco, sii anche tu mytherapy.